Nella puntata precedente.
Il telefono aveva iniziato a squillare.
“Non rispondere”, la pregò Castle, trattenendola con una mano, per impedirle di alzarsi.
“Castle, devo rispondere”, gli rispose, come se fosse una cosa ovvia e lui si stesse dimostrando irragionevole.
Lui aveva il viso affondato nel suo collo, mentre lei gli accarezzava distrattamente i capelli. Qualcuno poteva biasimarlo?
“E' il tuo giorno libero. Non sei nemmeno reperibile. E' il nostro giorno”, protestò con voce petulante.
“Non è la suoneria del distretto”, gli spiegò Kate, sgusciando via dal letto e prendendo in mano il cellulare, che aveva lasciato sul tavolo.
“E' un numero sconosciuto”, gli disse, girandosi a guardarlo.
“Detective Beckett. Sono John Raglan”.
Castle la vide irrigidirsi senza capire chi fosse il suo interlocutore, e si concentrò d'istinto sulle sue reazioni, una cosa che aveva imparato in fretta a fare. Beckett poteva non parlare molto, ma non era così brava a nascondere le sue emozioni. Non a lui, almeno.
“Dobbiamo parlare del caso di sua madre. C'è qualcosa che non sa”.
Beckett rispose a monosillabi, aumentando morbosamente la curiosità di Castle. Riattaccò e le servì qualche momento di silenzio per riprendere un certo contegno, prima alzare di nuovo gli occhi su di lui, con un'espressione molto seria.
“Castle. Possiamo parlare un minuto?”.
Lui capì dal suo tono che non era più il caso di scherzare, quindi si tirò su velocemente dal letto e si infilò la camicia, prima di raggiungerla sul divano, dove si era seduta, fissando un punto vuoto davanti a lei. Beckett persa nei suoi pensieri non era mai una cosa foriera di buone notizie.
“Chi era al telefono?”, le chiese, teso.
“Era John Raglan”, iniziò a spiegargli e, vedendo la sua faccia inespressiva, continuò: “E' il poliziotto che si è occupato, o meglio che non si è occupato, del caso di mia madre. Vuole parlarmi. Dice che ci sono delle cose che non so e che devo sapere”.
“E perchè proprio adesso?”. Gli sembrava una cosa senza nessuna logica.
Lei aveva lo sguardo assente di quando stava cercando di dare un senso a qualcosa.
“Non lo so, Castle”, rispose dopo un momento di riflessione. “Forse ha un rigurgito di coscienza. Vuole che ci incontriamo da soli tra un'ora, in una caffetteria”.
“Credi che sia sicuro andarci?”, le chiese cauto.
“Castle, sono un poliziotto”, gli ricordò.
“Questo lo so, ma non ti sembra strano? Che voglia vedere te, adesso, senza testimoni?”. Non poteva fare a meno di essere preoccupato. E apprensivo.
“Non so cosa pensare. Ma non posso non andare. Si tratta... di mia madre”.
Lui le appoggiò una mano sulla gamba, per esprimerle sostegno. “Lo so”, rispose comprensivo.
“Vuoi venire con me? Ha detto niente poliziotti, ma tu tecnicamente non lo sei”.
“Certo che ti accompagno. Non ti lascio certo andare da sola”, la rassicurò.
“Castle”, gli sorrise. “Sono io che ho la pistola”.
“E io ho il mio arsenale di arguzie, se necessario”.
Alla fine dire che non era filato tutto liscio era l'eufemismo del secolo.
A Castle non era piaciuto Raglan, fin dal primo momento. Kate era molto tesa e lui gli sembrava solo un viscido ex poliziotto che cercava una redenzione ai suoi peccati. Non se l'era bevuta neppure per un momento.
Lo sparo improvviso del cecchino, attraverso la vetrata, li aveva colti di sorpresa e aveva, di fatto, dato inizio al dramma. Adesso non erano più quattro chiacchiere senza impegno. Era un omicidio.
Kate aveva reagito d'istinto, grazie al suo addestramento, si era buttata a terra, aveva estratto la pistola e aveva iniziato a gridare ordini agli altri avventori del bar, mentre lui si occupava di Raglan, per il quale, purtroppo, non c'era stato niente da fare. Era morto portando con sé i suoi segreti.
Girandosi verso di lei si era accorto della macchia di sangue che si stava allargando sul suo maglione bianco ed era stato preso dal panico.
“Kate, Kate. Stai bene?”, le aveva gridato.
“Sì, sto bene” gli aveva risposto, con la mente impegnata in altro.
“Kate”, aveva urlato di nuovo per avere la sua attenzione. “C'è del sangue! Sei ferita? Ti ha colpito?”.
Lei non lo aveva neanche sentito e lui l'aveva strattonata, cedendo all'isteria.
Lei si era scostata con violenza. “Castle, cosa ti salta in mente? Non è il mio sangue! Devi stare calmo”, lo aveva redarguito.
Lui si era lasciato scivolare a terra sul pavimento della caffetteria, con il sollievo che si spandeva nel suo corpo, e incapace di fermare il tremito alle gambe.
Aveva perso il controllo, quando aveva temuto che fosse stata colpita. Aveva dato di matto.
Capiva che così non era d'aiuto. Al contrario, era solo un peso e rischiava di diventare un pericolo per lei.
Se ne stette in disparte, mentre Beckett parlava con il capitano Montgomery, e lo pregava di non toglierle il caso di sua madre. Nessuno lo conosceva meglio di lei, su questo Montgomery era d'accordo. Non altrettanto sul fatto che fosse la persona giusta per indagare, credette di capire Castle dall'angolo in cui si era messo, cercando di riprendersi.
“Il caso è tuo, Beckett. Ma non voglio nessuna iniziativa personale. Ci siamo capiti?”, l'aveva ammonita.
“Si, signore”.
Rimasti da soli, tornarono all'interno del locale.
“Stai bene?”, gli chiese sollecita. “E' sempre diverso, quando ti capita davanti agli occhi”. La sua voce aveva abbandonato il tono autoritario con cui aveva diretto le operazioni, e ora era sinceramente preoccupata per lui.
“E' diverso quando tu sei la madre di mio figlio”, le rispose, andando dritto al punto.
“Castle, ti sembra il momento di tirar fuori il discorso? A cosa servono adesso queste frasi a effetto?”
“Non è una frase a effetto. E' la verità. Ti sei esposta a un pericolo. E potevi essere colpita”, le ricordò con tono adirato.
“Dovevo solo incontrare una persona in un bar, per parlare. A questo punto non dovremmo neanche andare a fare la spesa. O uscire a cena”. Non aveva tutti i torti, ma lui non era in grado di riconoscerlo.
“Non è la stessa cosa. Sapevi che c'era qualcosa di strano, quando hai accettato il suo invito. E' stato sospetto fin dall'inizio”.
“Castle, sono una poliziotta, ti ricordi? Faccio un lavoro pericoloso per definizione. Ma non per questo i poliziotti smettono di avere figli. O dovremmo sterilizzarci tutti, secondo te?”.
Lui fece un sorriso amaro.
“Non farmi una lezione di retorica, Beckett. Lo so che mestiere fai. E nessuno ti stai chiedendo di smettere di farlo. Dico solo che non dovresti stare sul campo, in questo momento”.
“Castle, ne abbiamo già parlato”, sospirò stancamente lei.
“Kate, non è una cosa che ti chiedo io. E' il regolamento. L'ho letto. Devi essere ricollocata”, ribadì per l'ennesima volta le parole che le aveva già detto all'infinito.
“Lo so, conosco il regolamento”, ammise seccata.
“E allora perchè non lo dici a Montgomery. Perchè non lo dici a nessuno?”, la accusò.
Lei non lo aveva mai visto così e cominciava a essere stanca di dover badare a un adulto irragionevole che la distraeva, in un momento poco opportuno.
“Ti pare il momento adesso?”. Glielo ripeté una seconda volta, con la pazienza di una madre davanti a un bambino intrattabile.
“E quando sarebbe il momento, Beckett? Avevi detto 'Aspettiamo dodici settimane, non diciamolo prima del tempo, dobbiamo essere sicuri che vada tutto bene'. Siamo a tredici settimane. Cosa aspetti? Che nasca? Vuoi correre dietro agli assassini con il pancione?”. Non le piaceva, quando era sarcastico e aveva ragione.
“Castle, sto bene. Sto meglio di quanto sia mai stata nelle ultime settimane. Perché dovrei fermarmi? Perché devo finire... non so, a fare le fotocopie quando sono ancora operativa sul campo?”. Adesso era lei ad avere un tono petulante.
“Ah, quindi è così. Mi ha tenuto buono con la scadenza delle dodici settimane, ma non hai mai voluto fermarti. Ecco perchè non lo vuoi dire a nessuno. E' perché non vuoi smettere di fare il tuo lavoro, alle tue condizioni”. Castle era veramente arrabbiato. E deluso.
“Non voglio smettere di fare il mio lavoro, perchè sono dannatamente brava a farlo e perchè non c'è motivo per cui debba stare dietro a una scrivania, solo perchè lo decide una stupida legge”, ammise finalmente Kate.
“Non è una stupida legge. Serve a tutelare te, e il bambino. Sempre che ti importi qualcosa”. Ecco il passivo aggressivo in tutto il suo splendore, pensò Kate stizzita.
“Come puoi dire una cosa del genere?”, replicò ormai alla sua schiena, visto che lui era uscito, incapace di sostenere oltre la discussione.
Ottimo, pensò. Adesso non ho uno, ma due problemi. Tempismo perfetto, Castle.
Lo raggiunse all'aperto, dove lui la stava aspettando, girato di spalle e per niente intenzionato a parlarle.
“Vuoi... vuoi che ti accompagni a casa? Io vado al distretto”. Le sembrò giusto fare il primo passo. La tentazione era quella di mandarlo al diavolo, ma si erano detti che dovevano mediare e comunicare meglio. Provarci, almeno. E lei ci stava provando, moltissimo.
“Non pensarci nemmeno. Vengo in centrale con te”, le rispose seccamente.
Kate pensò che avrebbe preferito intrattenere un cobra, ma fece silenzio e aspettò che salisse in auto.
Saltò fuori che le cose stavano prendendo una piega più seria, che l'omicidio di sua madre era molto più complesso di quello che aveva sempre pensato e che le ramificazioni potevano portarla molto più lontano di dove avrebbe mai pensato di spingersi.
Ed era su questo che stava riflettendo, trovandosi di fronte Vulcan Simmons.
Castle era seduto vicino a lei, come tante altre volte, ma con la differenza che percepiva la tensione nel suo corpo e sentiva che era pronto a scattare. Sembrava più che le stesse facendo la guardia, invece che aiutarla a condurre l'interrogatorio. Sperò che non creasse problemi.
Simmons era il genere di feccia che odiava trovarsi davanti. Stava cercando di metterla in difficoltà, di provocarla, e lei stava facendo ricorso a tutto il suo autocontrollo per non lasciarsi andare alla rabbia. Era stata addestrata per questo. Aveva già incontrato ogni tipo di personaggio, seduto di fronte a lei. Sapeva come trattarli. Sapeva quando fare pressione, quando fingere indulgenza, quando interpretare il poliziotto buono e quello cattivo.
Sapeva usare il linguaggio del corpo per intimidirli e non abbassava mai lo sguardo.
Sperò che tutto questo le venisse in aiuto, di fronte a Simmons, che sembrava trovarsi del tutto a suo agio e convinto di condurre i giochi.
Ti sbagli di grosso, gli indirizzò mentalmente Kate.
Certo, non era facile mantenersi fredda e distaccata, quando aveva la foto di sua madre morta davanti a lei.
L'aveva guardata così tante volte, per cercare il minimo indizio, che pensava di essersi ormai assuefatta, ma non era umano non sentire una stretta allo stomaco, ogni volta che le tornava tra le mani. Era sua madre.
Ma doveva farlo per lei. Per se stessa e per lei. Non poteva lasciare a nessuno la direzione di questo caso. Nessuno si era dedicato, impegnato, ossessionato tanto quanto lei.
Cercò di stare calma. Cercò di non reagire alle sue provocazioni. Cercò di condurre l'interrogatorio sui binari che aveva deciso lei, invece di farsi sviare dalle sue risposte, senza farsi manipolare.
Ma, a un certo punto, fu troppo anche per lei e, senza averlo deciso, ma sentendo solo una rabbia feroce farsi strada dentro di lei, si ritrovò a scagliarlo contro lo specchio della sala, con ancora le sue parole viscide nelle orecchie, e le braccia di Castle che la tiravano via, a forza. Non ce l'aveva fatta.
Castle interveniva raramente in questo modo, ma, quando lo faceva, era perchè la situazione stava degenerando, se ne rendeva conto. Ma, in quel momento, avrebbe voluto girarsi e sbattere anche lui contro lo specchio. Due al prezzo di uno.
La situazione era ulteriormente peggiorata quando, uscendo dalla stanza, aveva trovato Montgomery ad aspettarla. Non aveva la faccia di uno che portava buone notizie.
“Sei troppo coinvolta”, l'aveva accusata. “Sei fuori dal caso”. Il suo tono non ammetteva repliche.
“Signore, non può farlo”, aveva protestato, incredula.
“L'ho appena fatto”, la risposta era stata secca. “Vai a casa”, le aveva ordinato.
“Signore...”, aveva cercato di farsi ascoltare un'ultima volta.
“Ha ragione, Beckett”. Era intervenuto Castle, a qualche passo da lei, che si era girata a guardarlo furibonda.
“E' giusto che lei sappia che Beckett è...”.
“Castle, non è il momento”, lo aveva interrotto, gelida.
Cosa gli veniva in mente? Pensavano tutti di darle ordini come se fosse stata una bambina? Era una detective, e voleva fare il suo lavoro. Fine del discorso.
Aveva preso la giacca con un gesto stizzito e se ne era andata via, senza incrociare lo sguardo di nessuno e senza rispondere a Castle che chiamava il suo nome, preoccupato.
Ne aveva abbastanza delle sue premure soffocanti, grazie tante.
E ora era seduta sul suo divano, sentendosi come un leone in gabbia e, allo stesso tempo, molto miserabile.
Le veniva un po' da piangere, non sapeva se dalla rabbia o per colpa degli ormoni. Odiava questa situazione. Odiava starsene con le mani in mano, mentre altri si occupavano del suo caso.
Sentì suonare alla porta. Non aveva voglia di vedere nessuno.
Aprì e si trovò davanti Castle. L'ultima cosa che desiderava era un altro giro di discussioni con lui.
Non ne aveva la forza.
Lui non disse niente, ma le porse un pacchetto che teneva nascosto dietro alla schiena.
Lei lo prese in mano. “Torta al cioccolato, Castle?”, gli chiese mentre il suo umore stava già cambiando e le veniva da sorridere.
Funzionava così, di solito. Lui era l'unico che riuscisse a far splendere il sole nel giro di due minuti. Dimenticò la rabbia e tutto quello che avrebbe voluto vomitarli addosso.
“Cos'è? Un tentativo di corruzione?”, proseguì sarcastica, ma felice, dentro, e sollevata dalla sua presenza.
“Ho pensato che il bambino avesse bisogno di un po' di zuccheri”, le rispose con aria innocente.
“Il bambino, eh? Il caso vuole che io e lui abbiamo gli stessi gusti, allora”.
Lui era ancora sulla soglia, timoroso di entrare. Le si fece da parte e lo fece accomodare.
Le mise una mano sulla guancia “Stai bene?”, le chiese scrutandola attentamente.
Lei sentì un moto di pura insofferenza, che cancellò subito i miglioramenti del suo stato d'animo, indotti dalla torta.
Ultimamente non cambiava semplicemente umore. Era su una montagna russa emotiva.
“Castle, se sei venuto...”, iniziò battagliera.
“No. Voglio solo sapere se stai bene. E voglio scusarmi”, le confessò, spegnendo sul nascere le scintille di un eventuale litigio.
Davvero?, pensò lei. Nessun'altra predica su lei che non doveva fare quello che le avevano impedito di fare e sul suo futuro lavorativo?
“Scusarti?”, chiese, incerta se fidarsi o meno.
“Sì. E' difficile, per te, e io ho complicato le cose, standoti addosso come un cane pastore”.
Lei lo guardò dubbiosa.
“Lo dici perchè adesso sono fuori dal caso, vero? Cioè proprio quello che volevi”, qualcosa dentro di lei la spingeva a essere provocatoria anche se sapeva, almeno in teoria, che non era il modo giusto di incontrarsi a metà strada e costruire ponti, e tutte le altre stronzate che si leggevano sulle riviste.
Lui sembrò un po' ferito dalle sue parole, ma non raccolse la provocazione.
“Anche se ti è difficile crederlo, non sono il tuo nemico. Non voglio farti smettere di fare le cose che ami fare. Voglio solo il bene di tutti”.
“Parli come un prete, adesso?”, gli rispose con il tono più sprezzante che riuscì a trovare.
Odiava quando la trattava con paternalistica condiscendenza.
Lui fece finta di non aver sentito le sue parole offensive. Riusciva a farla arrabbiare anche di più, quando la ignorava, facendo il superiore.
“Ok”, proseguì Castle, con calma controllata. “Ho una proposta per te”.
“Una proposta? Stare a casa a fare le torte?”. Dio, prima o poi sapeva che sarebbe esploso, ma non riusciva a smettere. Le uscivano letteralmente le parole di bocca, prima che potesse fermarle.
“No. Le torte preferisco comprartele”.
La fece sedere di fronte a sé. “Montgomery ti ha messo fuori dal caso di Raglan, giusto? Ma non ha detto niente su quello di tua madre”, iniziò a illustrarle.
“Il caso di Raglan è il caso di mia madre”.
“Vero. Ma tecnicamente non coincidono. Perché non rivediamo tutta la storia di tua madre? Magari può uscire qualcosa, possiamo trovare indizi, una strada diversa...”.
Lei si alzò, senza dire una parola, e lo condusse alla finestra, dove aprì le ante, che rivelarono una rudimentale lavagna, su cui lei, come faceva al distretto, aveva appuntato foto, appunti, ritagli di giornale.
Lui fu sorpreso sia del fatto che, nonostante vivesse praticamente lì, non si era mai accorto di niente, ma anche che lei gli stesse mostrando una parte così vulnerabile di sé.
“A volte dimentico che tu devi convivere tutti i giorni, con questa cosa”, mormorò dispiaciuto. Dispiaciuto di essere, spesso, così poco attento alla sua vita, nonostante le sue migliori intenzioni e anche per quello che aveva vissuto e che non era riuscita a mettersi alle spalle.
“Quindi”, sorrise per farle coraggio. “Tiriamo fuori tutto da capo e vediamo se ti è sfuggito qualcosa”.
“Castle, ho già esaminato tutto milioni di volte”, protestò.
“Riguardiamo un'altra volta. E' passato del tempo. Sono cambiate le cose”.
Lei andò a prendere la scatola con gli oggetti personali della madre, e la tenne tra le mani un momento.
“Castle, non c'è bisogno che fai questa cosa. Riguarda me. Sono io il poliziotto che indaga i casi”.
“Beh mi sembra un po' tardi per tirare ancora in ballo questa cosa, no? Sono due anni che risolvo gli omicidi con te”.
Era vero, in effetti.
“Sì, ma voglio dire... non devi essere per forza essere coinvolto”.
“Io voglio essere coinvolto”, ribadì volenteroso. “Sono o non sono il tuo aiutante sfigato?”. Mise su una faccia buffa che la fece ridere.
“Gli aiutanti sfigati muoiono”, cercò di spaventarlo, ma sperando che lui non ci cascasse.
“Ok, partner allora”, annunciò vittorioso.
Kate sentì una sensazione di calore farsi strada dentro di lei.
“Ok, partner”, concesse, sorridendo.
“Del resto mi pare che la categoria 'marito' non ti interessi, giusto?”, la prese in giro.
“E poi cosa facciamo? Apriamo la nostra agenzia di investigazioni e facciamo Cuore e Batticuore?”, gli rispose con lo stesso tono. Erano tornati alle loro solite schermaglie. Andava tutto bene.
“Ma è una cosa fantastica, Beckett! Perchè non ci avevo mai pensato?”. Sembrava davvero entusiasta dell'idea. Figuriamoci.
Lei gli lanciò addosso il cuscino e aprì la scatola.
Per Castle fu uno strano viaggio nel passato di Beckett, in cui cercò di muoversi con discrezione e tatto, senza fare il solito elefante in una cristalleria.
Vide foto di una giovane Beckett, che non aveva ancora iniziato a percorrere la via tormentata su cui l'aveva trovata lui. Era spensierata. Amata. Leggeva l'orgoglio negli occhi di sua madre e sentiva di provare lo stesso amore e orgoglio. Se solo lei fosse riuscita ad uscire da questa pozza di sofferenza, per tornare a vedere il mondo come un posto pieno di cose belle da vivere. Magico.
I patti erano che, nel caso avessero trovato degli indizi, o delle piste da battere, non avrebbero fatto da soli, o quantomeno non lei da sola, ma avrebbero riportato a Montgomery e agli altri del distretto.
Avevano convenuto entrambi che lei non poteva, di fatto, andare avanti nelle indagini, da cui era stata estromessa.
Ma i termini dell'accordo cominciarono a fare acqua da subito.
Lei non riusciva a starsene buona e a delegare, aspettandosi che gli altri facessero il lavoro. Era una che amava i fatti, non le attese. Voleva intervenire, voleva uscire e andare in giro da sola a fare domande e seguire le nuove piste che avevano trovato.
Lui doveva fermarla, rendendola sempre più insofferente. Ma le cose erano riuscite ad andare più o meno avanti, mantenendosi su un equilibrio stabile, finché Montgomery non era venuto da lei a dirle che doveva metterle una scorta sotto casa, perchè era stata seguita, e avevano trovato foto di lei a casa di Lockwood. Era, quindi, diventata improvvisamente un bersaglio ed era finita in pericolo, senza nemmeno saperlo.
Lei aveva chiesto a Montgomery di farla tornare, che sarebbe stata al sicuro solo a distretto, che poteva aiutarli, e che era il suo caso. L'aveva ripetuto di nuovo.
“Beckett, i casi non sono di nessuno. Ce ne stiamo occupando noi. E' troppo rischioso farti uscire da qui. Non puoi assolutamente tornare”, e se ne era andato, esercitando la sua autorità per la seconda volta, quel giorno, senza permetterle di dire una sola parola.
Questo aveva portato all'estremo la sua collera, già provata dai fatti del giorno, ed era stato proprio al massimo della sua frustrazione, quando vagava per il suo appartamento sentendosi in carcere che avevano, di nuovo, bussato alla porta.
Recuperò la pistola che aveva tenuto vicino a sé, e andò ad aprire, pronta ad affrontare chiunque si fosse trovata davanti. Era Castle.
Entrò senza troppe cerimonie, e la mise al corrente degli ultimi sviluppi, con il timore giustificato che questo l'avrebbe resa sempre più impaziente e difficile da calmare. Ma non poteva certo tenerle nascoste le cose. O così almeno credeva in quel momento.
“Quindi, ricapitoliamo”, disse Beckett. “La ricerca si è ridotta a due Jolene e Ryan ed Esposito vanno da una? E chi va dall'altra?”, chiese con tono pratico.
“Manderanno qualcun altro”, rispose lui distratto.
“No, Castle, dobbiamo andare noi”, era sbottata.
“Beckett, non puoi nemmeno uscire di casa! Ti hanno messo sotto sorveglianza”, le aveva ricordato, cercando di farla ragionare. Il che era sempre un errore, e lui lo sapeva.
“Sono stanca di stare chiusa dentro a queste pareti. Sto diventando idrofoba. Prendi la giacca e andiamo. E' grazie a noi che hanno fatto passa avanti nel caso. Non possono tenermi fuori”.
Lui non si mosse.
“Beckett...”, iniziò stanco già prima di cominciare.
“Cosa? Cosa c'è Castle? Non sopporto più il tuo tono da “ho ragione io”, di oggi. Dì quello che devi dire”, era esplosa.
“Possiamo calmarci un attimo?”, tentò di rabbonirla.
“Sono calma!”, si sentì urlare addosso per tutta risposta.
“Beckett, non possiamo andare noi dall'altra Jolene. E' pericoloso”.
“Smettila di ripetermi che è pericoloso! Sembra che tu non faccia altro, da giorni! Non è più pericoloso di un altro qualsiasi caso”.
“Certo che è più pericoloso di un altro caso. Tu sei uno degli obiettivi! E in più non ragioni freddamente”.
“Mi stai dicendo che non so fare il mio lavoro?”, lo apostrofò, gelida.
“Chiediti il motivo per cui lo stai facendo”, le rispose, senza cedere alla propria, di rabbia.
“Cosa significa?”.
“Significa che ti stai ossessionando”.
Lei chiuse gli occhi, incapace di non alzare la pistola e premere il grilletto.
Ossessionata. A lei. Come si permetteva?
“Castle, ci sono passata. Lo so quando mi ossessiono, e ti assicuro che, in questo momento, non lo sono. Sto bene. Posso occuparmene”, tentò di convincerlo.
“Non stai bene, Kate, e lo sai”.
Lei lo guardò con puro odio.
“Lo sai qual è il problema? Che tu vieni qui e pretendi di dirmi come sto e cosa devo fare. Ma tu non mi conosci, Castle. Pensi di sì, e invece non è così. Solo perchè abbiamo questa...”.
“Cosa, Beckett? Cosa abbiamo? Dillo”, ormai anche lui era aveva oltrepassato la soglia del venirsi incontro.
Erano andati troppo oltre.
“Questa... storia che abbiamo. Che va avanti da poco. E tu credi che questo ti dia il diritto di sapere come devo comportarmi. Ma questa è la mia battaglia, e tu non puoi capirla, e non puoi entrarci”.
“Oh, quindi è questo che abbiamo? Una 'storia' e basta?! Non sono nient'altro, per te?”, anche Castle aveva alzato la voce, ferito e arrabbiato.
“Castle... non è quello che...”.
“Sì, è proprio quello che volevi dire. E' meglio che me ne vada”. Non l'aveva mai visto così fuori di sé, e lontano da lei.
“Castle...”, provò a richiamarlo.
Lui era già sulla soglia, quando si girò a dirle, con una freddezza che la gelò nel profondo. “Se metti in pericolo il bambino, non te lo perdonerò mai”.
“Ma per chi mi hai preso?! Per una pazza incosciente? Certo che non lo metto in pericolo”, aveva dato di nuovo in escandescenze.
“Lo prometti?”, le aveva chiesto con un tono che le fece capire che non le credeva.
“Castle, non c'è neanche bisogno di fare queste promesse”, gli aveva risposto, abbassando finalmente la voce.
“Devi solo azzardarti a farlo”, l'aveva minacciata, prima di chiudersi la porta alle spalle.
E invece, ovviamente, aveva fatto di testa sua. Subito dopo di lui era uscita anche lei, era andata al distretto, e si era diretta a casa di Jolene Granger, esattamente come aveva detto che avrebbe fatto, e l'aveva trovata morta.
Di seguito la situazione era peggiorata, e Lockwood aveva teso una trappola a Ryan ed Esposito. Beckett, senza aspettare rinforzi, si era precipitata al vecchio magazzino dove li teneva rinchiusi ed era riuscita a entrare. E adesso era appoggiata al muro, concentrata e all'erta. E in pericolo.
Castle era tornato a casa, incapace di calmarsi e di ragionare con chiarezza. La trovava esasperante e cocciuta e ne aveva abbastanza di stare tranquillo per non farla arrabbiare. Di capirla, e di accettare qualunque cosa da lei. Finché si trattava solo di lui non era importante, ma adesso c'era un'altra persona, di mezzo. E qualcuno che non poteva ancora proteggersi. Lei doveva proteggerlo.
Nonostante la rabbia, era rimasto abbastanza convinto che non si sarebbe comportata irresponsabile.
L'aveva detto più che altro per renderle chiare le cose, ma era convinto non sarebbe uscita di casa per andare da sola, di sera, a risolvere il caso.
Ma, con il passare dei minuti, cominciò a sentirsi stranamente inquieto. Non lo avrebbe fatto, giusto? Non era così fuori di testa. Una voce dentro di lui cominciò a dubitare di queste certezze. Era Beckett. Poteva farlo eccome. Era convinta di avere le competenze, l'intelligenza, il buon senso, e l'addestramento per venire fuori da qualsiasi situazione. Era convinta di essere la migliore. E questa, unita alla fissazione di voler risolvere da sola il caso della madre, non era la combinazione migliore.
L'inquietudine divenne angoscia e lui, incapace di rimanere oltre con le mani in mano, si diresse a sua volta al distretto, cercando al contempo di chiamarla al cellulare. Senza risposta.
Entrò come una furia nell'ufficio di Montgomery.
“Dove è Beckett?”, chiese senza fiato.
“E' fuori. Perché, Castle, è successo qualcosa?”
“Non doveva farla uscire di casa. Non deve lasciarla andare in giro”, gli rispose in preda al panico.
“Perché? E' tutto a posto. L'ho riammessa al caso”.
“Era proprio quello che non doveva fare. Mi dia l'indirizzo”. Castle era fuori di sé.
“Perché no? C'è qualcosa che dovrei sapere?”, gli domandò Montgomery, confuso, ma Castle stava già scendendo le scale di corsa e non lo sentì.
Raggiunse il vecchio magazzino. Non aveva il giubbotto antiproiettile, non aveva ovviamente una pistola. Doveva trovare il modo di entrare e portarla via di lì, anche di peso se fosse stato necessario.
In un momento di distrazione del tizio appostato a fare la guardia, sgusciò dentro. Si nascose dietro a un pilastro, senza fare rumore. Vide Ryan ed Esposito legati e grondanti acqua, sentì degli spari, vide Lockwood spostarsi per evitarli e, guardandosi in giro, riuscì a scorgere Beckett semi nascosta, mentre stava mettendo altri proiettili nella sua pistola.
Si accorse che era esattamente nel mirino del cecchino, ignara di essere esposta e, senza pensarci si avventò su di lui e si mise a colpirlo con una furia cieca.
Nel frattempo si sentirono degli spari e delle urla e quando finalmente riuscì a lasciarlo andare, si accorse che tutti gridavano e che Beckett si era accasciata al suolo, priva di conoscenza e, con la mano ancora insanguinata e agendo solo d'istinto, corse da lei, la prese tra le braccia, gli sembrò senza vita e, sentendosi solo implorarla di non morire, per favore, non morire, uscì in strada.