Beckett si svegliò di colpo, dopo solo qualche ora di sonno. A conclusione della serata avevano deciso di trascorrere il resto della notte al loft di Castle, in quei giorni sgombro e stranamente silenzioso.
Si era addormentata subito, ma adesso era completamente insonne. Sarà colpa del materasso, si disse. Forse invecchiando comincio ad aver bisogno delle mie abitudini.
Castle dormiva profondamente nel suo lato del letto e lei, dopo essersi rigirata invano, decise di alzarsi. Niente la urtava di più che dover rimanere sdraiata, quando era evidente che anche l'ultima traccia di sonno era ormai svanita.
Passò nello studio, avvolto nell'oscurità e si diresse verso il salotto, dove raggiunse il divano e si lasciò cadere con un sospiro. Guardò l'orologio. Le tre. Troppo presto per fare finta di poter iniziare la giornata.
Si rassegnò allo scorrere di ore lente e inutili, in cui avrebbe contato qualsiasi cosa di numerabile, pur di farla finita.
Scorse i libri sul tavolo basso di cristallo di fronte a lei, cercando qualcosa da leggere.
Aveva davanti una giornata lunga e tutto quello che
non desiderava era di doverla affrontare stanca e di cattivo umore.
Ripensò alla serata. Pensò all'appuntamento del giorno dopo. Era il momento della verità e lei, invece di essere sollevata, si sentiva nervosa e con la voglia di infilarsi sotto al lenzuolo e dormire per sempre. Certo, questo sarebbe stato possibile se almeno avesse avuto sonno.
Lasciò scorrere lo sguardo sul salotto di casa Castle e ragionò per l'ennesima volta che non era possibile vivere senza una parete. Come si può dormire senza sentirsi al sicuro?
Certo, Martha e Alexis dormivano al piano di sopra, e anzi Martha formalmente non viveva neanche più lì, quindi una certa intimità era, per così dire, preservata. Lei del resto non era mai stata lì contemporaneamente alle altre donne, quindi il problema non si era posto.
Ma dove avrebbero messo il bambino? In camera con loro? Di sopra? In balcone? Di sicuro lei non poteva starsene a dormire di sotto, con tutto quello che poteva capitargli. Lo voleva vicino. Non necessariamente nella stessa stanza (poi, perchè no?), ma non a un piano di distanza. Era assolutamente fuori questione.
Di colpo si rese conto di quello che stava facendo. Stava davvero riflettendo sul futuro in questi termini?. Si chiese con un misto di incredulità e angoscia.
Era il bambino? Stava comunicando telepaticamente con lei? Facevano così? Si impossessavano della tua mente?
Leggermente inquietata da quello che si era trovata suo malgrado a pensare, si decise, per la prima volta, ad affrontare la questione.
Per prima cosa si guardò onestamente: era cambiato qualcosa? In apparenza, no. Lei però sentiva che il suo corpo le apparteneva ogni giorno di meno. La differenza sostanziale era tra quello che non le piaceva più e quello che, senza nessuna logica, avrebbe voluto mangiare per tutto il giorno. Addio caffè. Addio vino. Benvenuto a tutto ciò che era
verde. Forse il bambino era fruttariano.
A seguire, l'incontrollabile ipersensibilità agli odori. Nel caso del profumo naturale della pelle di Castle, di cui era pazza, poteva anche essere apprezzabile, ma quando si trovava di fronte a un cadavere, o in un vicolo pieno di spazzatura, non era più così divertente. Forse avrebbe potuto partecipare a quei quiz televisivi in cui i concorrenti, bendati, dovevano riconoscere i cibi solo dall'odore.
Si immaginò come sarebbe stato felice Castle di vederla fare una cosa del genere. Avrebbe anzi voluto partecipare anche lui. Peccato che non sarebbe finita bene, nella parte con gli odori che la disgustavano.
Terzo, il suo corpo non era in grado di sostenere gli sforzi come aveva sempre fatto. Era sempre stata molto allenata, ma adesso aveva dovuto diminuire i minuti di corsa, perchè le veniva il fiatone.
Non era abituata ad avere un corpo che rispondeva a
qualcun altro, qualcuno che adesso sembrava anche abitare il suo cervello.
“Ehi,
bambino”, provò a chiamarlo. “Yuhuu, laggiù, c'è nessuno?”.
Si sentiva un po' idiota a farlo, e di sicuro non l'avrebbe mai confessato a Castle. Ma cominciava, suo malgrado, a trovare la cosa un po' buffa.
Come facevano le altre persone con delle altre persone piccole al loro interno? (No, non avrebbe mai usato la parola
madri).
Lui la sentiva da fuori o da dentro? In quale momento spuntavano le orecchie? Sapeva, vagamente, che il cuore arrivava a formarsi abbastanza in fretta, ma il resto? Doveva parlare ad alta voce? No, certo che non l'avrebbe fatto, così nel silenzio della notte. L'avrebbero internata.
Si ricordò che di solito uno dei gesti tipici di queste
persone era quello di accarezzarsi la pancia. Ovviamente lei non lo faceva e non l'avrebbe fatto.
Si alzò la maglietta di Castle che prendeva sempre in prestito quando rimaneva a dormire lì e che lui, ormai, metteva in un posto a parte, solo per lei.
La pancia era piatta. Nemmeno il gonfiore di certi giorni del mese. Appoggiò due dita sull'ombelico, dando dei colpetti lievi, aspettandosi non sapeva esattamente cosa. Che battesse cinque da dentro?
Forse stava impazzendo. Gli embrioni avrebbero avuto la meglio sugli esseri umani e avrebbero dominato il mondo.
Non sentì niente. Per forza, si disse. Dubito che possiamo discorrere dei massimi sistemi del mondo da dentro e fuori la mia pancia.
Appoggio solo una mano e basta, si disse.
La tengo ferma. Ci tiro sopra la maglietta, così non vedo.E poi cedette istintivamente al familiare, e al tempo stesso straniante, gesto materno che non sapeva nemmeno di conoscere, e che le stava venendo spontaneo. E la cosa non le sembrò affatto ridicola, ma naturale, e le venne un po' da ridere e un po' da piangere e alla fine mormorò a voce bassa “Buonanotte,
bambino” e tornò a sdraiarsi vicino a Castle, che aveva continuato a dormire profondamente.
L'appuntamento era fissato tardi nel pomeriggio, cosa che aveva permesso a Beckett di andare al lavoro, e di non pensarci per tutto il giorno.
Doveva incontrarsi con Castle direttamente dal medico, visto che era rimasto fermo nel suo proposito di accompagnarla, anche se aveva accettato di aspettarla fuori visto che lei, a dirla tutta, non era esattamente a suo agio a parlare di mestruazioni saltate e lunghezza del suo ciclo, davanti a lui.
La giornata era scorsa via senza scossoni, certo non velocemente, ma non aveva guardato spesso l'orologio e non era stata attanagliata dall'ansia. Era tutto sotto controllo, pensava.
Uscì dal distretto con il sole ancora alto, guidò senza fretta e parcheggiò davanti allo studio, dove Castle la stava già aspettando.
“Grazie per essere venuto”. Non sapeva perchè lo stesse ringraziando. Avrebbe preferito stare da sola con i suoi pensieri, e non essere costretta a fare conversazione, ma Castle aveva la capacità di alleggerire la situazione solo con la sua presenza. E aveva insistito. Quindi, perchè no?
Entrarono e si sedettero nella sala d'attesa, un po' troppo piena di gente, per i suoi gusti. Il dottore era in ritardo? Di quanto sarebbe slittato il suo appuntamento?
Castle sorrise alla segretaria, che fu subito conquistata dal suo fascino, così come le altre donne, che Kate vide raddrizzarsi sulla sedia e lanciargli occhiate furtive, o neanche troppo furtive. Lui sembrava bearsi, come sempre, dell'attenzione femminile, e cominciò a parlare di convenevoli e interessarsi cortesemente delle loro vite, brillante e carismatico come sapeva essere.
“Castle!”, lo richiamò all'ordine, seccata.
“Che c'è?”, le chiese lui innocentemente.
“Vedo quello che stai facendo”, lo ammonì.
“Faccio conversazione. E' una sala d'attesa, è così che si fa di solito”.
“No, nelle sale d'attesa si fa silenzio. Non si ammaliano le donne!”.
“Io starei ammaliando le donne? Poi, chi usa la parola 'ammaliare', in questo secolo? Hai ricominciato a leggere Jane Austen, Beckett?”.
Lei grugnì di esasperazione, gli girò ostentatamente le spalle, prese un giornale a caso, e ci nascose la testa dentro.
“E, comunque, mi pare che qui qualcuno sia geloso”, la canzonò, gongolando.
“Quanti anni hai? Dieci?”, gli rispose piccata, continuando a stare girata dall'altra parte.
Castle smise di intrattenere il pubblico, prese un giornale, e finse anche lui di leggerlo.
“Oddio ma come può essere così grossa? Sarà incinta da almeno due anni, come gli elefanti!”, commentò Beckett dopo qualche minuto si silenzio, avvicinando la testa a quella di lui, senza riuscire a trattenere lo stupore, alla vista di una donna seduta davanti a loro.
“Beckett!”, si meravigliò lui. “E' un commento così cattivo che avrei potuto farlo io”, rifletté ridendo, un po' dispiaciuto di non esserci arrivato per primo.
“Sto solo dicendo la verità. Dai, non può essere normale”, si giustificò Beckett.
“Saranno gemelli”, concluse Castle, osservando la donna in questione, che gli sorrise dalla sua poltroncina. Non gli sembrava così grossa.
Beckett lo guardò interdetta. “In che senso gemelli?”. Era così stupita che sembrava le avesse annunciato che sì, in effetti si trattava di una gravidanza da elefanti.
“Nel senso di due bambini che nascono contemporaneamente. Sai che gli esseri umani, qualche volta, come i pipistrelli, hanno dei parti gemellari, il che avviene perchè...”, le illustrò con il suo miglior tono da commentatore di National Geographic.
Lei lo fermò nella sua disquisizione scientifica. “Lo so cosa sono i gemelli. E' che... non ci avevo pensato”, confessò.
Oddio, ci mancava che fossero due.
“Beh, sai, non è un'eventualità così remota”, continuò Castle.
“Perché? Hai casi di gemelli in famiglia?”, si allarmò. Quante cose si dovevano sapere quando si univa il proprio corredo genetico a quello di un'altra persona?
“No, è perchè sono molto virile”, chiosò lui, divertito.
Lei lo guardò seria. “Se non la smetti di essere così scemo, ti mando via”, riuscì a dire, prima di mettersi a ridere.
Oh, l'effetto che le faceva Richard Castle. Lo sforzo che faceva Richard Castle per farla stare bene quando stava per decidere di non tenere definitivamente il bambino che lui voleva così tanto.
Si sentì così
amata e grata per avere un uomo del genere nella sua vita.
“Invece in quella coppia là in fondo, secondo te chi è incinta?”, le domandò a bassa voce con voce da cospiratore.
“Intendi tra quei due uomini?”, si interessò subito lei.
“Uno dei due dovrà essere per forza una donna, non credi? Cosa ci fanno qui, altrimenti?”, ragionò Castle.
“Forse la donna è dentro”, congetturò Kate.
“E' un triangolo? Marito e amante? Il bambino di chi è?”.
“Non deve per forza essere incinta, no? Magari è una visita di controllo”.
“E sono dovuti venire tutti? I cugini di secondo grado li hanno lasciati a casa?”, commentò sarcastico.
Lei si mise a ridere, di nuovo. “Smettila! Se continui così dovrò tornare in bagno per l'ennesima volta”.
“Quindi anche tu lo fai?”
“Andare in bagno?”
“No. Immaginare le storie della gente. Io lo faccio quando sono in coda da qualche parte, da sempre”, le confidò.
Lei si raddrizzò sulla sedia e, con un tono di superiorità, gli rispose: “Io non immagino, Castle. Io
sospetto”.
Lui la colpì sulla gamba con il giornale.
“Ma sentiti. E' arrivata la
cop superfiga 'Io combatto il crimine anche mentre dormo'”, la prese in giro.
Lei gli restituì il colpo con il suo giornale.
“Sai, Castle, tu ti prendi libertà con me che i ragazzi al lavoro non si permetterebbero mai”, gli fece notare impettita.
“E' perchè io ti rendo molto, molto felice”, ribatté, facendole l'occhiolino.
“Fingerò di non aver colto la tua pesante allusione, perchè sono una signora”, gli rispose, sprofondando di nuovo nel suo giornale. “Forse avresti dovuto rendermi meno felice, visto dove ci ha portati tutta questa
felicità”, aggiunse.
“Non mi pareva che ti lamentassi quando...”
“Castle! Ti sembra il momento?!”. Gli lanciò un'occhiata di disapprovazione.
“E poi cosa vorrebbe dire, che ti riservo un trattamento di favore in cambio di favori sessuali?”, continuò incapace di fare silenzio.
“Beh, hai sempre voluto mettere le mani su di me, dal primo giorno”. Castle lo disse come se fosse un'ovvietà.
“No, affatto. Forse non ti ricordi quanto eri insopportabile all'inizio”, ribadì lei decisa.
“Dai, Beckett, lo sappiamo tutti e due qual è la verità. E poi, adesso non hai più bisogno di negarlo”.
“Sei tu che hai sempre voluto
uscire con me”, replicò piccata.
“No, io ho sempre voluto fare il poliziotto, lo sai”. Castle assunse un'espressione innocente.
“Sì, certo, come no. Guarda, finiamola qui, Castle. E' meglio”, tagliò corto.
“Eh, la gente che non sa perdere”, si burlò di lei canticchiando.
Lei non volle fargli vedere che le veniva da ridere, ancora.
Seguì qualche istante in cui rimasero seri, in silenzio.
Poi Castle avvicinò di nuovo il giornale al suo e le mormorò, da dietro: “Elefantessa in arrivo”, indicando la signora con i probabili gemelli, che stava uscendo in quel momento dallo studio, e lei scoppiò a ridere e non aveva ancora smesso, quando venne fatta accomodare nello studio del medico.
Castle la guardò scomparire dietro la porta e appoggiò il giornale, che non aveva mai iniziato a leggere, al suo posto.
E così erano arrivati alla fine, pensò con un pizzico di auto compatimento. Aveva sperato fino all'ultimo che lei cambiasse idea. Anzi, non aveva mai davvero pensato che lei potesse
davvero pensarla in maniera tanto diversa da lui. Le aveva lasciato tempo, e spazio, in abbondanza, ma sempre convito che, a un certo punto, lei avrebbe accettato l'idea di un bambino, e di
loro. E invece, con sua sorpresa e rammarico, era andata fino in fondo. Questo cosa diceva di loro? Molto poco, se qualcuno glielo avesse chiesto.
Era così immerso nei suoi pensieri che non sentì la segretaria del medico chiamarlo.
“Signor Castle?”, ripeté la donna a voce più alta. “Può entrare nello studio”. Lo informò.
Lui fu così meravigliato che le stava per rispondere che no, grazie, non doveva entrare, era lì solo in veste di accompagnatore.
Ovvio, si disse, fermandosi in tempo. Siamo da un ginecologo.
Non riusciva a capire perchè lo facessero entrare. Non erano questi i patti con Beckett. Lei voleva fare la visita da sola. Lui era lì solo per fare lo scemo. Non che fosse esattamente questo il loro accordo verbale, ma lui aveva voluto provare a diminuire la tensione, nel modo in cui sapeva che ci sarebbe riuscito.
Il medico lo stava aspettando sulla porta. Era molto giovane e Castle represse l'istinto di chiedergli se il
vero dottore fosse da qualche altra parte.
“Buongiorno, signor Castle, piacere di conoscerla. Kate la sta aspettando nell'altra stanza”, gli disse mostrandogli la direzione con un gesto della mano.
Quale altra stanza? Si chiese Castle, mentre il medico lo faceva passare in locale più piccolo, dove vide un lettino e Beckett distesa sopra a occhi chiusi.
Stava male? Aveva avuto un malore durante la visita?
“Va tutto bene?”, volle sapere, un po' preoccupato.
“Lo vediamo subito. Kate ha voluto che anche lei assistesse all'ecografia”.
Davvero? Lui si girò a guardarla sbalordito, ma lei aveva girato la testa verso lo schermo. Si sedette sullo sgabello molto scomodo e troppo piccolo, a destra del lettino, trovando terribilmente assurda tutta la situazione, ma non osando chiedere chiarimenti. Evidentemente aveva bisogno che lui fosse lì. A far cosa, non riusciva ancora a capirlo.
Il medico accese il computer e passò la sonda sulla pancia di Beckett, che era tesa come una corda di violino, riusciva ad accorgersene perfino lui dalla sua posizione arretrata.
Comparvero le prime immagini confuse e, d'istinto, Kate allungò la mano all'indietro a cercare la sua e lui fu pronto a raccogliere la sua richiesta di aiuto.
“Allora, controlliamo se questo bambino si fa vedere”, mormorò il medico a se stesso più che a loro, senza indovinare il dramma che, in quel momento, si stava svolgendo alle sue spalle.
“Eccolo qui”, annunciò trionfante, girando lo schermo nella loro direzione. “Lo vedete?”, chiese allegramente.
Loro si sporsero in avanti, finsero di guardare attentamente e poi gli sorrisero con molta cortesia, e risposero, all'unisono “No”.
Si lanciarono uno sguardo fuggevole, e lui vide nei suoi occhi lo spavento e l'insicurezza.
“Ok, la prossima volta si vedrà meglio”, cercò di confortarli il medico.
La prossima volta?
“E' quella parte nera?”, chiese Beckett con una voce che Castle non riconobbe.
“No”, rispose il medico pazientemente. “La parte nera è proprio dove
non è il bambino”.
“Oh”, commentò Kate, delusa.
“Comunque, direi che va tutto bene e mi sembra in linea con le settimane di gestazione. Vediamo se sentiamo il cuore”, proseguì.
“Si sente... già?”, gli domandò Beckett in apprensione. Non se lo aspettava. Non era pronta. Se c'era un cuore magari aveva anche le orecchie e aveva sentito tutto quello che aveva detto di lui.
“Potremmo già sentirlo, ma se anche non succede, non significa niente di brutto”, la tranquillizzò il dottore.
E, di colpo, senza preavviso, nella stanza risuonò un battito molto forte e accelerato, che, a ogni colpo, sembrava rivendicare la propria esistenza autonoma.
Kate sbarrò gli occhi e strinse convulsamente la mano di Castle. Le si riempirono gli occhi di lacrime, che non tentò nemmeno di trattenere e seppe che mai, per il resto della sua vita, avrebbe dimenticato quel suono e quel momento.
Castle, dal canto suo, smise per un istante di essere concentrato su Kate, e fece dei respiri profondi per mascherare la sua emozione, evitando accuratamente di incontrare il suo sguardo, o si sarebbe messo in ginocchio a implorarla di fare cose che lei non voleva fare e che lui non poteva chiederle di fare.
Il medico si girò a guardarli, convinto di aver reso felice una coppia di genitori orgogliosi.
Kate si ripulì e usò un angolo della carta assorbente per asciugare le lacrime all'angolo degli occhi, si rivestì e tornò alla scrivania, dove Castle la stava già aspettando.
“Quindi, direi che va tutto molto bene, qui ci sono le analisi da fare, la prescrizione per le vitamine e l'acido folico che avrebbe già dovuto prendere, e che deve iniziare subito, cerchi di riposare, attività fisica moderata, vita normale, insomma. Ci vediamo tra un mese. Per ogni problema o dubbio, non esiti a chiamarmi”.
E in un attimo furono di nuovo fuori nella serata estiva.
Tra un mese?Beckett non aveva voglia di tornare già a casa, così gli indicò l'entrata dei giardini vicino a casa sua. Aveva bisogno di stare all'aria aperta, di distrarsi e di riprendere il controllo di sé.
Castle era insolitamente taciturno, camminava vicino a lei con le mani in tasca e lo sguardo fisso a terra.
Si sedettero sulle altalene, decidendolo insieme senza parlare, e lei iniziò a dondolarsi.
Le era impossibile stare ferma su un'altalena.
Mosse le gambe avanti e indietro ritmicamente, si diede un'ultima spinta vigorosa, prese velocità e di colpo fu in aria, andando sempre più in alto e passando a intervalli vicino a Castle e sentendosi per la prima volta da molto tempo libera. E felice. E più lasciava finalmente spazio a questi sentimenti, e più si sentiva piena di forza e aumentava la spinta delle gambe.
Lui si riscosse da suo torpore per guardarla allarmato.
“Fermati!”, le disse alzando la voce per farsi sentire, quando lei gli sfrecciava vicino.
“Beckett, basta, fermati, è pericoloso”. Lei rise pensando scherzasse, ma quando lo vide farsi paonazzo in modo sinistro, mise per terra i piedi e frenò di colpo.
“Sei impazzita?”, le chiese furibondo.
“Qual è il problema?”. Davvero non riusciva a capire perchè se la prendesse tanto.
“Potresti cadere e farti male”, le spiegò, sforzandosi di stare calmo.
Lei si mise a ridacchiare, incapace di trattenersi.
“Dai, Castle, chi vuoi che cada dalle altalene? Sono sicure”, lo rassicurò.
“Sono sicure per dei bambini. Non per degli adulti che pesano il triplo”.
Lei lo guardò con affetto.
“E' perchè sei caduto da piccolo? Ti è rimasto il trauma? Magari sei anche caduto da sopra un letto a castello?”. Non riuscì a frenarsi e si mise a sghignazzare forte.
Cosa aveva da essere così allegra?
“Molto divertente. Ridi pure, intanto io ti ho salvato la vita”, le rispose con tono sostenuto.
“Quando ero piccola io e miei cugini passavamo le ore sulle altalene. Giravamo su noi stessi seduti sul seggiolino e incrociavamo le catene più volte e poi ci lasciavamo andare di colpo. Oppure dondolavamo a pancia in sotto e intanto ci confidavamo i nostri segreti. Non ti dico che nausea che ci veniva. Ah, e facevamo a gara a chi arrivava più in alto e poi saltavamo giù al volo. Prendevamo certi colpi alle gambe che ancora me li ricordo”. Era un raro momento di condivisione di Beckett, e lui non se la sentì di interromperlo, anche se gli scenari che stata ricostruendo lo atterrivano sempre di più. Lui certo non aveva mai permesso che Alexis facesse quelle cose pericolose.
Altalene. Mai fidarsi di un'altalena.
Beckett rimase in silenzio a guardare oziosamente le persone che popolavano il parchetto a quell'ora della sera.
Proprietari di cani che lanciavano palline, ragazze che ridevano tra loro, giovani uomini in giacca e cravatta che tornavano da lavoro, gente che correva, che parlava al telefono, che faceva programmi. Anche Castle era assorto a guardare qualcosa e lei, seguendo il suo sguardo, vide che si era soffermato a guardare un bambino che giocava da solo nel recinto della sabbia.
Prese un lungo respiro. “Sai, Castle, il dottore ha detto che il bambino nascerà in primavera”, gli disse con la voce un po' tremante, di cui lui non si accorse, sempre preso dalle sue fantasticherie.
Si girò a guardarla, assente. “E' una bella stagione, la primavera. Anche io compio gli anni in primavera”. E tornò a voltarsi.
“No, ha fatto i calcoli sul suo programma. Intendeva proprio il giorno dell'equinozio”. Insistette.
“Come si dice?
Una rondine non fa primavera”.
Lei lo guardò esterrefatta. Era ubriaco o solo, semplicemente, molto tardo?
“Castle!”, sbottò spazientita. “Focus!”.
Ebbe finalmente la sua attenzione, ma la stava ancora fissando con aria ottusa.
“Quale parte di 'Il bambino nasce il 21 marzo' non ti è chiara?”.
Lui spalancò gli occhi e, per un momento, sembrò muoversi al rallentatore, abbandonando l'altalena e alzandosi in piedi. Aprì e chiuse la bocca, senza riuscire a emettere un suono.
“Che cosa? Tu... che cosa? Ma... quando? Perchè? Chi sei tu? Dove hai nascosto la vera Beckett?”, farfugliò senza rendersi conto di quello che diceva.
“Castle, una domanda per volta”, scherzò lei, senza riuscire più a contenere il sorriso che aveva represso dall'uscita dello studio. E, vedendolo avvicinarsi a lei per abbracciarla, lo fermò con una mano. “Castle se mi sollevi e mi fai girare come fai sempre quando sei in preda all'entusiasmo, ti vomitiamo in testa”, lo avvisò.
Lui si limitò a prenderla tra le braccia e a stringerla forte, senza lasciarla più andare.
“Quando hai cambiato idea?”, le chiese dolcemente, senza smettere di tenerla contro di sé.
Lei abbassò gli occhi, improvvisamente timida.
“E' che... batte il cuore”, gli confessò con semplicità e lui seppe che non poteva amarla di più, e che invece l'avrebbe sempre amata di più, anche se questo gli avrebbe magari spezzato il cuore, un giorno.
“Andrà tutto bene”, le sussurrò tenendola stretta. E questa volta lei gli credette.
“Cosa dirà la gente? Alexis, tua madre. Mio padre?”, gemette Kate.
“E il ragazzo delle pizze? Non pensi a come rimarrà male? Lui ha sempre avuto un debole per te. E il sindaco? Non è il caso di fare una conferenza stampa? A Obama non vogliamo dire niente?”. Castle era partito in quarta a fare
Castle,e lei gli alzò gli occhi al cielo.
“E' una cosa seria!”, lo ammonì.
“Certo che è una cosa seria. Avrei citato Obama, altrimenti? Kate...”, proseguì. “Abbiamo tutto il tempo di fare tutto quello che deve essere fatto, al momento giusto”.
“Quindi... possiamo aspettare a dirlo agli altri? Possiamo tenerlo per noi ancora per un po'? E' che... è ancora presto. Non sono ancora passate le settimane difficili”, gli chiese con apprensione.
In quale momento era passata dal non volerlo, a temere di non superare il primo trimestre? Dove era stato lui? Come aveva fatto a non accorgersene?
“Ok. Tanto mia madre e Alexis sono in Europa. E non si può certo dire a qualcuno al telefono 'Ehi, avrai un fratello o una sorella', convenne Castle.
“Un fratello”, dichiarò decisa.
“O una sorella”, ripeté lui.
“No, è un maschio”.
“Come fai a saperlo?”, chiese sorridendo, pensando che scherzasse.
“Lo so e basta. Sono cose che si
sentono”, gli annunciò alzando il mento in segno di sfida.
“Quindi adesso tu e il bambino comunicate? Ti dà anche i numeri della lotteria?”.
“Castle, se devi prendere la cosa sottogamba in questo modo...” e fece per andarsene.
“No, scusa. Scusami. E' che è strano sentirti dire certe cose. Di che altro avete...” fece gesto vago con la mano. “...parlato?”.
“Mi ha chiesto se non c'era in giro un candidato migliore come padre, e gli ho risposto di perdonarmi, è che eri tanto... virile”, scappò via, mentre sganciava l'ultima parola, ma lui fu più svelto, la raggiunse e la afferrò sollevandola in aria. “Mettimi giù! Castle! Stai dando spettacolo!”, gli intimò lasciandosi sfuggire un grido.
Riuscirono a calmarsi solo molto tempo dopo, smettendo di ridacchiare come due ragazzini in gita, e tornando seri.
“Ci sono delle condizioni, però”, gli annunciò, compita.
“Tutte le condizioni che vuoi”, accettò precipitosamente.
“Punto primo”, snocciolò alzando un dito. “Non lo chiameremo fagiolino, lenticchia o qualsiasi altro prodotto della terra”.
“Ok”, annuì. “Niente ortaggi”.
“E io non diventerò un elefante”, proseguì decisa.
“Certo che no”, convenne lui, ansioso di compiacerla.
“Ma se lo diventassi...”, continuò, come se non l'avesse sentito. “Tu mi aiuterai ad alzarmi dal divano e non mi lascerai mai, in nessun momento, a dibattermi come una tartaruga rovesciata sulla schiena”.
Lui si mise una mano sul cuore. “Mai. Te lo prometto. Anche se tecnicamente le tartarughe non hanno il guscio davanti”, iniziò a spiegare.
“Castle!”.
“Ok, niente balena spiaggiata”.
“Poi...”, continuò, concentrandosi.
“Beckett, dovevi dirmi che l'elenco era così lungo, avrei preso appunti. Comincia anche a diventare buio”.
Lei gli intimò di fare silenzio con una delle sue occhiate.
“Ho quasi finito. Non farò il corso pre-parto, non mi toccherai continuamente la pancia e, soprattutto, non ci sposeremo”.
“Perché non dobbiamo sposarci?”, si stupì lui, sorpreso che lei stesse toccando questo argomento, a cui perfino lui non aveva ancora pensato.
“Castle, tu sposi tutti!”, gli fece notare poco diplomaticamente.
“Ok, vivremo nel peccato, se così desideri”, accettò.
Lei fece un sospiro, stanca per tutte le emozioni del pomeriggio e appoggiò la testa sul suo petto.
“Andrà tutto bene, vero?” chiese con una vocina piccola che non le aveva mai sentito.
“Andrà tutto benissimo. Noi saremo grandiosi. Il bambino
maschio sarà grandioso”, la rassicurò, passandole una mano tra i capelli.
“Diventerò enorme”, si lagnò, abbandonata contro di lui.
“Diventerai bellissima”, le sussurrò emozionato, stringendola.
Preciso, quando ancora ce ne fosse bisogno, che io mi muovo, soprattutto qui, in un campo a me (e a Beckett) sconosciuto.
Per immedesimarmi, e per fornire prova della mia #scèntificità, vi informo che ho ascoltato un vero battito (non di sette settimane, come è a questo punto Beckett, perchè mi piaceva di meno

) e vi posso assicura che perfino IO, alias Erode, mi sono financo quasi commossa, non tanto per il suono in sè, ma a immaginarlo come il Caskett Baby e a loro che lo sentivano e come si sarà sentito lui e come l'ha sentito reale lei

Quindi, volevo mettervelo.